C'era una volta a Hollywood
Negli ultimi anni ho evitato Quentin Tarantino. Inizialmente folgorato da "Pulp Fiction", per la sua carica innovativa e la grande libertà espressiva, ero poi rimasto contrariato dall'insistenza ossessiva, e compiaciuta, dello splatter (fatico anche solo a pronunciare o scrivere la parola ...) che avevo trovato in "Kill Bill".
In seguito avevo ammirato la sua maestria e padronanza artistica in "Bastardi senza Gloria" anche se non riesco a togliermi dalla testa che la strage inaudita di nazisti con cui si chiude il film sia stata di ispirazione, anche se chiaramente involontaria, per il massacro del Bataclan: anche nel film si trattava di un teatro parigino e la dinamica dei fatti è stata molto simile.
Comunque, un po' titubante, vado a vedere "C'era una volta a Hollywood", presentato in pompa magna a Cannes nel Maggio scorso. Onestamente temevo come avrebbe trattato il tema del film: l'orrenda strage di Bel Air, località di Los Angeles dove risiedono le celebrità del cinema: nell'Agosto del 69 (esattamente cinquant'anni fa) nella sua casa, l'attrice Sharon Tate, moglie del famoso regista Roman Polanski, e tre suoi amici, vengono assassinati da una banda di hippie guidati dal loro capo, quel Charles Manson che nonostante la condanna (che sta ancora scontando, mi pare) diviene poi una celebrità, tanto che il suo cognome venne assunto molti anni dopo, e poco elegantemente, dal cantante Marilyn Manson.
Sharon Tate era allora incinta e l'irruzione fu così violenta che l'evento provocò scandalo e cordoglio in tutto il mondo. Polanski si salvò perché in quei giorni era via. L'evento assunse un particolare connotato malefico anche grazie al fatto che solo l'anno prima il regista polacco aveva girato "Rosmary's Baby" in cui la protagonista, Mia Farrow (ma anche la Tate era stata in lizza), partoriva un essere dalle sembianze demoniache. Insomma tutta questa materia nelle mani di Tarantino poteva legittimamente far pensare al peggio. Tra l'altro a Cannes, quest'anno, era presente anche Polanski col suo ultimo "J'Accuse", circostanza che poteva risultare perlomeno imbarazzante, se non indelicata.
Invece Tarantino si è trattenuto. E ha confezionato un bel film. C'è comunque una breve scena in cui se la prende, a modo suo e tanto per cambiare, con i nazisti, non mostra molta simpatia per gli hippie (che, insomma, mica erano tutti come quelli di Manson) ma mette in scena l'ambiente di Hollywood in modo sapiente e invitante, guida benissimo i due protagonisti maschili e segue con gentilezza, forse con tenerezza, la graziosa Margot Robbie che impersona Sharon Tate.
Riesce a creare il giusto pathos in vari momenti, specialmente quelli in cui crea cinema nel cinema, facendo recitare gli attori su set di finzione a loro volta rappresentati sul set reale. Un po' come amava David Lynch nei suoi ultimi film.
Leonardo Di Caprio al solito è bravissimo, un leone sul set (di finzione) e pieno di fragilità (balbettante ...) fuori dalla scena. Il suo amico e controfigura è impersonato dal sempre ragazzone Brad Pitt che non nasconde le rughe ma va alla grandissima. Resta la sua immagine di noncuranza e calma sicurezza di sè, anche se non vede l'ora di menare le mani (gustoso lo sketch con un altezzoso Bruce Lee).
L'autore si gioca bene il finale, come non avrei detto. Forse "alla Tarantino", certo, ma comunque rispettoso dei Polanski. E con una riflessione sull'uso della violenza nel cinema americano, di certo non un invenzione di Tarantino. Forse un po' auto-assolutoria ma comunque da non ignorare.
Resta un piacevole ricordo, come se si fosse stati presenti agli eventi raccontati, come se si fosse stati per un paio d'ore anche noi sui set degli studios, in compagnia dei maghi dell'illusione, nel regno del cinema.
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